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Dell’abitudine alla noncuranza

Mi capita spesso di pensare alla noncuranza con cui conviviamo con lo sfruttamento degli animali, e di come esso appaia ai più ineluttabile, una di quelle cose che sono sempre state così, e dunque semplicemente normali.

Nella nostra società è normale trovare nei negozi di alimentari pezzi di corpi animali, confezionati nelle classiche vaschette bianche chiuse dal cellophane. Dalle fettine agli spiedini, ai corpi spellati e privati della testa di quelli che fino a poco tempo prima erano dei conigli, alle cosce di pollo, fino addirittura al fegato o al cervello magari di un vitellino. E poi naturalmente tutti i salumi, che non fanno impressione neanche un po’, eccetto probabilmente la lingua, e che quindi si mangiano con ancor più noncuranza del resto della carne. E poi il banco del pesce, con tutti quei piccoli occhi tondi ormai ciechi, o i sacchetti di rete con le cozze ancora vive, nascoste nel loro guscio nero.

Fin da bambini, quando la mamma ci portava al supermercato, abbiamo imparato la noncuranza dalla noncuranza degli adulti intorno a noi. Soltanto crescendo, oppure grazie alla nostra sensibilità, alcuni di noi sentono che tutto ciò non è affatto normale, che una società che uccide sistematicamente degli esseri viventi per cibarsi della loro carne, esponendo sugli scaffali quelli che in definitiva sono pezzi di cadaveri, è una società con una forte componente di indifferenza e di crudeltà mascherata da abitudine o da tradizione. Una società profondamente specista.

Stesso discorso per gli abiti, le scarpe, e tutti i manufatti confezionati con la pelle degli animali, o con la loro pelliccia. Oggetti che sono praticamente ovunque, spesso considerati particolarmente pregiati, a cui siamo abituati fin da piccoli, e dunque che si travestono di normalità.
Occorrerebbe, secondo me, parlare ai bambini del modo in cui trattiamo gli animali, senza omettere neanche il più triste particolare. Soltanto così ci sarebbe forse una possibilità di costruire un mondo migliore per gli animali non umani. Solo facendo conoscere ai più piccoli quegli esseri che la maggior parte dei bambini incontra soltanto sotto forma di cibo, ci sarebbe la speranza che le nuove generazioni riescano a sviluppare una coscienza nuova e piano piano ad affermarla.

In quanto agli adulti, a coloro che nella noncuranza verso la sofferenza degli animali sono cresciuti preferendo non porsi mai troppe domande, non è troppo tardi per cominciare a guardare il mondo da un punto di vista un pochino diverso. Per alcuni può accadere in modo improvviso, dopo aver assistito ad un episodio che ha smosso qualcosa nella coscienza, o dopo aver appreso di qualche atrocità commessa in un allevamento, o in un macello. Per altri può essere un cammino più lungo e graduale.

Io credo, per quella che è la mia esperienza diretta, che nella maggior parte delle persone vi sia una certa quantità di empatia e di compassione per gli animali, soltanto che sono sentimenti poco coltivati e soffocati spesso dalla noncuranza generalizzata. Solo lasciandoli emergere riusciremo ad affrancarci dal nostro specismo e a guardare agli animali con uno sguardo finalmente nuovo.

Fonte: comeunanimale.blogspot.com


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