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No alla vivisezione

Il business della vivisezione.

Da anni le associazione animaliste denunciano il business della vivisezione. Sulla vivisezione prospera infatti un’industria per la quale la prova sugli animali è un certificato di garanzia per tutte le sostanze chimiche, per tutti i veleni che vengono immessi nell’ambiente naturale. Ma accanto all’industria farmaceutica e a quella dei cosmetici, prospera l’industria parallela dell’allevamento e della vendita di animali destinati alla vivisezione. Per conoscere le cifre del mercato della vivisezione, basta cliccare sul sito della Harlan, che pubblicizza prezzi e prodotti. Un beagle di sei mesi costa 473 euro, un gatto di nove 526. I topolini vanno da un paio di euro a oltre 70 per una femmina gravida. Dello stesso tenore il sito della Charles River, che fornisce più di 55 alterazioni chirurgiche sui roditori. L’acquirente può scegliere tra animali transgenici, ibridi, mutanti, sottoposti a operazioni, femmine gravide o con nidiata. Molte di queste “ditte” operano anche in Italia, perché si tratta di multinazionali. Ma nel nostro paese fiorisce soprattutto un mercato in nero costituito da piccoli allevamenti clandestini non apertamente destinati alla vivisezione. Tra le multinazionali più fiorenti si può citare la Covance Inc. una multinazionale britannica specializzata in vivisezione. Ha filiali in 18 paesi, 6000 dipendenti, un fatturato di circa 900 milioni di dollari. Lavora per conto di 50 imprese farmaceutiche e biotech, alleva e vende cani, conigli, porcellini d’india, topi, maiali, scimmie. Ha anche brevettato una razza di cani, il mini-meticcio destinato esclusivamente alla vivisezione. La sua filiale tedesca, a Munster, è il laboratorio che in Europa fa il maggior uso di primati non umani: 2000 tra macachi e scimmiotte tropicali. Vengono svolti test di tossicità, studi sul cancro e istopatologia.
I test eseguiti specificamente per i prodotti cosmetici sono solo una parte dei test di tossicità e le associazioni antivivisezioniste si stanno impegnando per ottenerne l’abolizione in tempi brevi, non perché questi test siano più inutili o più condannabili dal punto di vista dell’etica o dal punto di vista scientifico, ma perché, per il “sentire comune” sono meno giustificabili di altri test. In effetti le ricerche sui cosmetici non possono essere presentate come indispensabili per il progresso della scienza, al contrario di quanto dichiarato dai vivisettori per quanto concerne ad esempio la farmacologia.
Ad essere normalmente testate su animali sono tutte le nuove sostanze chimiche che costituiscono il prodotto. La stragrande maggioranza dei prodotti cosmetici finiti non è testato su animali perché non è obbligatorio per legge (prima della loro messa in commercio). Fanno eccezione i prodotti di alcune grosse multinazionali (p.e. la Procter & Gamble) che dichiarano di testare anche i prodotti finiti per garantire ai consumatori una maggiore sicurezza, mentre in realtà lo fanno solo per avere ulteriori dati di tossicità dei loro prodotti, da utilizzare in eventuali processi intentati dai consumatori. Da un punto di vista etico, chi sostiene questo business afferma che è meglio sacrificare degli animali se questo serve a salvare qualche vita umana. Chi si oppone, invece, replica che non si deve scegliere tra due mali, specie se il prezzo di questa scelta è comunque la sofferenza inflitta a un essere vivente.

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